19 aprile 2009
Divintasti cita’, chi Diu ni scanza...
Secondo incontro di letture mauriane
«Questo secondo incontro di letture mauriane, vuole, per quanto possibile, approfondire il rapporto che il Maura, il Maura poeta per lo meno, aveva con la dimensione sociale in cui era inserito: relazioni interpersonali, familiari, amicali e con la comunità menenina in genere.
Anche se uno dei tratti fondamentali della sua opera è proprio quel mélange di vissuto e di finzione letteraria che lo ha liberato da ogni costrizione sociale; Maura ha dovuto tener conto delle dinamiche sociali menenine per mettere a nudo la non umanità della sua città: la sua Mineo è un luogo dove abbondano le metafore animali, uno spazio irreale contraddistinto da un'ipocrisia fatta di corruzione, meschinità e vocazione al tradimento. Nell'inveire la sua voce adotta i registri dell’ironia e del sarcasmo, usa la forza della moralità e ammonisce il potere locale con lo strumento della satira. La satira, triste riflessione dell'oggi, che tre secoli fa non poteva non essere tollerata.
Ma qual è il volto del potere nella Sicilia del xvii secolo? L’azione politico-amministrativa in tutta l’isola era influenzata dalle direttive lontane ma esigenti della corte iberica. La storia della Sicilia per tutto il Seicento fu dunque legata alle vicende spagnole. In questo clima sociale, politico ed economico si colloca il microcosmo Mineo, quasi metafora dell'intera isola.
Il siglo de oro fu ricco di avvenimenti luttuosi e catastrofici che misero in ginocchio la popolazione locale. Da una parte un’amministrazione estranea e parassitaria, costantemente ricattata e complice dello strapotere baronale, supportata spiritualmente da un apparato clericale elefantiaco e improduttivo; dall’altra le numerose tragedie che si abbatterono sui territori siciliani: carestie, epidemie, calamità naturali e disastrosi terremoti ed eruzioni. Un secolo in definitiva mortifero.
Nel 1625 con un decreto regio Filippo IV cedette i diritti di gabella della città a una società genovese facente capo a Ottavio Centurione, Carlo Strata e Vincenzo Squarciafico. L’orgoglio, o meglio, gli interessi dei maggiorenti menenini spinse la comunità cittadina a chiedere al viceré l’annullamento dell’atto. Malgrado tutto, la cessione fu conclusa nel settembre del 1625. La popolazione menenina non intendendo rinunciare ai privilegi derivanti dall’appartenenza alle città demaniali, con un moto d’orgoglio decise di riscattarsi pagando l’enorme cifra di 12800 onze (con grossolana approssimazione 2,5 milioni di euro). La transazione permetteva loro di aver garantito il diritto al mero e misto impero: i menenini venivano giudicati dai propri offiziali e potevano respingere chiunque osasse arrecare danno o pregiudizio ai loro privilegi.
Gli offiziali, coloro che detenevano gli uffici e le magistrature della città, cercando di tutelare i diritti dell’Universitas, difendevano in realtà i propri privilegi. Le condizioni della povera gente restavano pressoché immutate.
La situazione giuridico-sociale era complicata dal rapporto conflittuale tra gli abitanti (nobili e non) della città da una parte e i feudatari i cui possedimenti ricadevano nel territorio comunale dall'altra. Su tutto il territorio di competenza, l’Universitas esercitava la giurisdizione civile e criminale e i singoli cittadini vantavano diritti (di pascolo, di caccia, di far legna ecc.) anche sulle terre baronali. In questo quadro si inserì l’episodio noto come la Rotta del Conte del 1615. Trenta anni dopo, a seguito dei moti palermitani, anche Mineo chiese l’abolizione dell’imposta diretta sul vino e sul macinato.
Le annate di carestia del 1614, 1618, 1620, del 1671 e 1672, le epidemie di colera e le piaghe bibliche che colpirono la città ne decimarono la popolazione. Nel 1658 e nel 1678 i raccolti furono distrutti da due invasioni di cavallette. Il secolo si chiuse con il catastrofico terremoto dell’11 gennaio 1693 che distrusse le città del Val di Noto, a cui fece seguito la terribile epidemia di colera.
Dal punto di vista culturale, il secolo fu contraddistinto da un’intensa attività, Mineo partecipò attivamente agli sviluppi isolani in questo ambito, alcuni suoi cittadini, come Paolo Maura, Ludovico Buglio, Orazio Capuana e Michele Amodio contribuirono ad alcune delle pagine più interessanti della storia culturale siciliana. Una cultura che rimaneva in ogni caso sotto il rigoroso controllo della corona spagnola. Nei testi letterari di questo periodo è assente qualsiasi riferimento alla situazione socio-politica dell’isola: la maggior parte della intelligencija siciliana proveniva dalle classi sociali alte, contigue al “potere centrale”, un esempio menenino per tutti il barone Orazio Capuana, poeta, che era il Capitano del castello di Mineo.
Nell’omologazione generale si inserisce, quale elemento di rottura, la poesia satirico-burlesca. In Sicilia per molti poeti vernacolari comporre voleva dire partire dalla realtà d’ogni giorno, dalla vita contadina, dalla saggezza propria dei detti proverbiali e smascherare il vero volto del potere, dell’autorità e della violenza. La condizione di miseria in cui era costretta a vivere la maggior parte degli abitanti fu causa del fiorire di questa particolare espressione artistica. A Mineo troviamo poeti che scrivono satire politiche come Michele Amodio, il quale, per molti aspetti, sembra precorrere il Maura. Questo genere di critica non poteva certo esser ben accolta dal potere costituito. La Sicilia immaginata come una grande prigione, un’enorme cella in cui milioni di cittadini si dimenavano alla ricerca di un filo d’aria, permise il divulgarsi di una ricca produzione poetica, che tra realismo e sarcasmo, pretendeva di rappresentare ad un livello più profondo la natura più vera dei siciliani. Molta letteratura, non escluso il poemetto mauriano La Pigghiata, verrà prodotta in questa temperie culturale.
Dalla satira non si salverà il clero. I poeti, inserendosi in un filone antico quanto la chiesa stessa, misero a nudo i vizi, la corruzione, il malcostume, gli intrighi che si celavano sotto i abiti sacri. Il ricco clero deteneva nelle proprie mani buona parte delle terre sulle quali non gravavano tasse e balzelli, e questo genere di satira non risparmiò nessuno, dal curato di campagna al papa, dai monaci alle suore».
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