1 febbraio 2014
Poesario
Raccolta di poesie del poeta contadino Agrippino Sinatra detto l'Argintieri.
Il volume è corredato di un cd audio delle poesie recitate da don Vincenzo Valentino.
Lo zi’ Pinu l’Argintieri è stato uno degli ultimi poeti menenini, l’epigono novecentesco di quella tradizione di poeti contadini che contribuirono ad accrescere la fama di Mineo come patria della poesia, il Parnaso siculo.
Agrippino Sinatra nacque a Mineo nel 1900. La prima giovinezza, l’età della sua formazione umana, la trascorse in un piccolo appezzamento di terra ereditato dal padre in contrada Purrazzeddi, nei pressi della casa di campagna dello scrittore Luigi Capuana a Santa Margherita.
Visse al ritmo lento delle stagioni, circondato dal fascino di quei luoghi ricchi di cupe grotte e ameni anfratti, spelonche ora inquietanti ora protettive, che gli offrirono perfino riparo quando, anni dopo, crollata la sua casa, si ritrovò senza un tetto.
Integrava il suo reddito di contadino, spaccando legna che poi vendeva, trasportandola a dorso di asino, ai fornai della non lontana Palagonia.
Non frequentò scuole, ma, animato da una fortissima volontà, sotto le armi, a ridosso della Grande Guerra, imparò a leggere e a scrivere.
Così la sua vita trascorse in solitudine: figlio unico, scapolo, aveva solo lontani parenti, un cugino, forse.
Non si sposò mai, alla gente che gli chiedeva perché non si volesse ammogliare, Agrippino Sinatra rispondeva: «Figghiu miu, se unu s’ha’ vidiri ’a festa nun c’è bisuognu ca s’ha’ ’mpòniri ’a Santa».Il soprannome l’Argintieri, la ’nciuria di famiglia, gli venne dal nonno che era una sorta di mercante di oro e argento vecchio.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita in una piccola casa in affitto, al pian terreno del palazzo Ballarò nel quartiere di Santa Maria. La padrona di casa gli preparava anche da mangiare.
Dopo pranzo, si racconta, che amasse intrattenersi con il priore del Convento dei Cappuccini, ’u majuri Zimmuni (Zimbone), discutendo delle cose della vita e di astronomia.
Gli acciacchi dell’età, il sopraggiungere di malanni, lo obbligarono a letto. Dopo poco tempo morì (il giorno di Ferragosto del 1995) in una casa di riposo lasciando dei suoi componimenti, come era antica usanza, solo un eco orale, un lontano ricordo di arguzia e ritmo.
Non volle mai che i suoi componimenti fossero trascritti, ne tanto meno che venissero registrati dalla sua voce, ma ricordati e tramandati oralmente da alcuni uditori attenti, come probabilmente aveva fatto egli stesso.
Per la natura delle sue poesie, lo spiccato senso dell’oralità e dell’estemporaneità, il metro e la versificazione, Agrippino Sinatra è tributario di quella antica e lunga tradizione di verseggiatori vernacoli contadini che costituì per secoli il naturale continuum tra tradizione letteraria aulica o semiaulica (a Mineo Paolo Maura, Orazio Capuana Yaluna, Ottavio Buglio ecc) e il sentire della massa del popolo analfabeta e povero. Una sorta di casta quella dei poeti menenini, che, a parte qualche raro caso novecentesco (tra i quali lo stesso Argintieri) aveva avuto le massime espressioni nell’Ottocento.
A questo punto non è superfluo adattare a Agrippino Sinatra le parole di ammirazione che ispirò a Lionardo Vigo il poeta menenino Agrippino Carcò: «Non posso chiudere […] senza cennare Agrippino Carcò di Mineo, la patria di Ducezio la capitale de’ siculi, ov’è la Pietra della Poesia, famosa per tutta l’isola, il Carcò dicea in versi di non comune bellezza, vivea per le muse e morì poetando».
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